Sobrio si trova sul versante sinistro della media Valle Leventina, sopra Giornico e Bodio. Il terrazzo che lo accoglie a
1'100 metri di altitudine risale all'era glaciale di 40'000 anni fa. Visto dal basso, questo terrazzo presenta impressionanti dirupi, inaccessibili selve castanili e una gronda di granito che forma uno strapiombo alto una sessantina di metri. Dall'orlo di questo strapiombo, che ha in una fila di tigli un naturale parapetto, si vede il fondovalle con il Ticino che, ormai ridotto a poco più di un rigagnolo dallo sfruttamento idroelettrico, fa pensare con nostalgia ai tempi in cui era ancora un vero fiume che accompagnava con la voce del suo scorrere le altre voci della natura che lo circondava. Di là dal Ticino s'alza il versante destro della Leventina, con i suoi fianchi scoscesi e le sue ripidissime valli come la Cramosina: i ghiacciai non lo hanno modellato con la tenacia da essi riservata al versante sinistro, da cui hanno ricavato stupendi pianori, lasciandovi a testimonianza di questo pregiato loro lavoro morene e massi erratrici come quelli di "Puscètt", così caro ai giochi dei ragazzi, di "Pian Puscètt" e del "Sasc da la Prédalta".
All'invito di questi pianori si aggiunse, per i primi abitanti, quello dell'acqua fornita da innumerevoli sorgenti, come quella del "Cassinél du Róss" che, a l'900 metri di altezza, è viva anche nei più prolungati periodi di siccità e pur se si trova a soli 250 metri sotto il crinale della montagna: ha forse, ci si domanda vedendola zampillare, qualche sotterraneo bacino di riserva oppure altri misteriosi fattori ne permettono il fresco perdurare? Un terzo invito fu poi rivolto a coloro che scelsero, per viverci, questi pianori: il sole che li favorisce in modo particolare e rende meno lungo l'inverno e più produttiva la terra. Un quarto invito fu quello dei boschi di cui questi pianori sono ricchi: castagni, abeti, larici offrirono in abbondanza ai colonizzatori legna e materiale da costruzione e quella fauna che ha bisogno per prosperare delle selve:
i cervi, in particolare. Un quinto invito fu infine rappresentato dalla presenza di terreni adatti all'agricoltura e permettenti uno sfruttamento del suolo in una misura ben maggiore di quella possibile nei vicini villaggi
di Cavagnago e Anzonico.
Come nasce un paese
La colonizzazione avvenne sicuramente in modo graduale: la zona, invisibile dal fondovalle, sarà stata scoperta da qualche cacciatore che vi ritornò per stabilirvisi in pianta stabile.
Gli abitanti di Giornico vi saranno poi saliti per cercare legna e pascoli, costruendovi i necessari ripari per gli armenti. Si saranno aggiunti in seguito soldati mercenari disertori e persone che per un motivo o l'altro volevano cambiare residenza e lavoro.
Nacque così, a poco a poco, il villaggio, la cui antica origine è documentata dalle costruzioni e dai toponimi terminanti in "engo" e ricordanti i Celti: "Piténg", "Buténg", "Ragaldéng", "Raghiténg", "Mascéng", ecc.
Sobrio è composto di due frazioni: Villa e Ronzano (Ronzàn nel 1430 e Ronzango fino al secolo scorso). Ritengo che il nucleo primitivo del villaggio si trovasse nel luogo detto "In Mèsse": nel 1935, durante i lavori di costruzione della strada di raggruppamento dei terreni che va da Ronzano a "Piténg", venne infatti alla luce un'antica tomba nel posto chiamato "alla purtèle" (la pietra che copriva, non datata, il sepolcro è tuttora conservata). Il nome "In Mèsse" fa poi pensare alla messa e quindi a una chiesa, che sarebbe sorta insieme con le prime case.
Vita di un tempo
Molti toponimi, come "La Mónda", "La Mónda d'zóra", "La Mónda d'zótt", "La Mónda d'Capùsc", stanno a rievocare a Sobrio il primitivo carattere agricolo del villaggio, raggiunto dalla gente del fondovalle che lo "mondava" per renderlo fertile.
Sorsero poi case e stalle a formare un nucleo reso il più possibile compatto per necessità di difesa da eventuali invasori e per aiuto reciproco in caso di necessità.
L'esistenza era durissima, ma forte era lo spirito di solidarietà, disciplinato anche dal "Libro degli ordini", quando occorreva l'apporto di tutti gli abitanti. Si dimenticavano, in quelle circostanze, i dissidi che dividevano certe famiglie e si lavorava, magari senza rivolgersi la parola, gomito a gomito.
Il lavoro principale era dato dall'agricoltura e aveva i suoi determinati periodi: durante l'inverno veniva rifatta la scorta di legna da ardere, che si andava a prendere nei boschi con grandi slitte. Gli anziani preparavano attrezzi destinati all'attività svolta nella campagna e sugli alpi; gerle, rastrelli, recipienti, brente per la farina e conche per il latte, collari per il bestiarne e utensili speciali come "la budèle" in cui si metteva la mascarpa conservata sotto sale.
Scomparsa la neve, si ripulivano i prati e si vangavano i campi per la semina delle patate. La segale si seminava già in autunno.
Giungeva poi il momento della prima fienagione, che si incominciava nei prati più bassi e si finiva, all'inizio di agosto, a "Puscètt". Terminata la prima fienagione si ricominciava quasi subito col secondo taglio, ancora dal basso e su su fino a Usc e Marùn. Seguiva la mietitura e la messa della segale sulle rascane e dopo una quindicina di giorni si faceva poi la battitura della stessa. Da ultimo si falciava il terzo fieno ma solo nei prati più fertili del paese. Le mucche si trovavano, nel frattempo, sull'alpe bedrettese di Manegorio, ma in paese vi erano ancora capre e capretti da custodire e tanti altri lavori da portare a termine.
Solo per la festa patronale di San Lorenzo si dimenticava per qualche ora il lavoro e si faceva un po' di allegria. Il 6 di settembre l'Alpe di Manegorio veniva scaricato e le bestie erano direttamente condotte sui monti di "Cassìn" e "Puscètt", dove si continuava la produzione di burro, mascarpa e formaggio. Seguiva il raccolto delle rape seminate al posto della segale all'inizio di agosto, e delle patate.
Arrivava poi il tempo dello strame e si raccoglievano gli "spin" (gli aghi degli abeti) e le foglie di castagno. Prima della loro caduta già erano stati capitozzati frassini e querce, i cui rami, ancora provvisti di foglie, sarebbero poi serviti da nutrimento invernale per le capre. Si raccoglieva poi, andandolo a prendere fin sul versante bleniese, di là dal Pizzo Matro, la "barba" vegetale cresciuta sui vecchi alberi. Essa serviva a sfamare il bestiame, quando il fieno non era sufficiente, in attesa della primavera.
...
Nel
1223, a una riunione tenuta a Faido per la ripartizione degli alpi dell'alta
Leventina, era presente per la Vicinanza di Monte di Giornico Guarnerino Fq. ser
Marchi de Surio. Già v'era quindi
a quell'epoca la Vicinanza di Sopra, cioè Súrio o Subrio, l'attuale Sobrio,
che nel 1277 si chiamava Suurio, nel 1238 Subrio, nel 1319 Sourio e nel 1567
Sorium o Sóuri.
La
Vicinanza, che era composta degli abitanti di un dato paese o di una data
regione, aveva alla testa un «console», nominato annualmente e coadiuvato
dagli «ufficiali» comunali.
Il
console aveva le funzioni che riveste attualmente un sindaco. I «vicini» erano
i patrizi; gli altri abitanti, i «forestieri».
Alla scadenza del mandato di un console si procedeva alla chiusura dei
conti; la cassa della Vicinanza passava poi al suo successore.
...
Sobrio
si separò, come Vicinanza, da Giornico il 26 novembre 1620, diventando comune a
sè. Il 15 marzo 1802 furono pagate
al Comune di Giornico le ultime decime dovute ai curati di quella chiesa
parrocchiale di San Michele: le decime consistevano in 5 staia di segale e tre
scudi d'oro. Il medesimo giorno
venne pure versata la rata dell'affitto in corso, stabilito «in lire mille al
corpo di Leventina, più lire tre mila trecento ottantuna e mezzo, tutto ciò in
vigore dell'istromento di separazione d'anno 1620».
Fino a
tale data i vicini di Sobrio e di Cavagnago dovevano dare annualmente ai parroci
di Giornico «staia 128 di segale»: si trattava di un obbligo che, causa la
scomparsa dei documenti, era ormai prossimo a scadere e sarebbe stato causa di
inutili contese giuridiche.
Alpi
e alpigiani
L'economia
alpestre di Sobrio è particolarmente legata all'Alpe di Manegorio («Managóu»
in dialetto sobriese, «Manió» in quello bedrettese e «Monigorio» nelle
antiche pergamene, una delle quali, datata 1435 e purtroppo introvabile, attesta
dell'acquisto di questo alpe).
Manegorio,
che appartiene al Patriziato di Sobrio, era di proprietà un tempo dei vicini di
Monte (Sobrio) e dei vicini del Piano (Giornico), che furono comproprietari,
sino al 1648, anche dell'Alpe Cramosino, come si deduce da una pergamena scritta
da Pietro Gotardo Maria: «L'11 aprile 1649 i consoli Antonio D'Andrea e Antonio
Minetti vendono il contingente di alpe di cui sono proprietari i vicini di
Sobrio al signor Paner Giudice di Giornico per la somma di 30 scudi. I sobriesi
si riservano però il diritto di mandare su detta alpe bestie minute, cioè
sterli». Manegorio fu
probabilmente assegnato a queste due Vicinie durante la spartizione degli alpi
avvenuta nel 1223.
Esso confina a Sud con Cassina Baggio: la linea di demarcazione consiste in un
muro a secco che dal Ticino sale lungo il fianco della montagna ed è ora
tagliato, oltre che dalla vecchia mulattiera verso il fiume, dalla nuova strada
della Novena, aperta nel 1969. A
ponente Manegorio confina con l'Alpe di Formazzora, che appartiene alla Degagna
di Tarnolgio di Mairengo: il confine è segnato dal percorso del Ticino a
partire dall'intersezione con Cassina Baggio.
A Nord confina con l'Alpe di Cruina, di cui è proprietaria la Degagna
generale di Osco: dal Ticino sino al culmine della montagna la linea di
demarcazione è data dal «Réi di pèuri».
All'altezza del «Pian Spighète», in direzione Nord, c'è poi la «Comuni»,
un pascolo goduto in comune da quelli di Sobrio e da quelli di Osco. A levante, infine, le creste dominate dal Pizzo Manió
delimitano il confine dell'Alpe di Manegorio che arriva quindi sino al Canton
Uri. ...
Con
gli zoccoli nella neve
A Sobrio vi
erano, un tempo, troppi capi di bestiame e non potevano salire tutti assieme
sull'alpe: si costituirono quindi due bogge, quella di Villa e quella di
Ronzano, che caricavano Manegorio a turno, un anno l'una e un anno l'altra.
La data del carico dell'alpe era stabilita dall'assemblea patriziale in
base alle condizioni della stagione: se essa era in anticipo, si partiva con il
bestiame il 26 giugno o il 28, vigilia della festa dei Santi Pietro e Paolo; se
era, invece, in ritardo, si saliva sull'alpe solo la prima settimana di luglio.
La settimana precedente il carico si inviava sul posto una «guardia dell'erba»
incaricata di evitare che le mandre bedrettesi entrassero nei pascoli di
Manegorio, rubando alle sue mucche un'erba preziosa.
La
«guardia dell'erba» doveva anche predisporre il necessario per accogliere
sull'alpe pastori e casari: ripuliva la cascina, preparava la legna, metteva
tutto in ordine.
La vigilia della partenza il bestiame che era destinato a Manegorio
veniva fatto scendere da «Puscètt» o da «Cassìn», dove si trovava da circa
tre settimane.
Il viaggio aveva inizio verso mezzanotte lungo l'itinerario Sobrio -
Lavorgo - Piottino - All'Acqua - Manegorio.
Le mucche e le capre giungevano alla meta dopo 12 ore; i maiali dopo due
giorni. 1 proprietari accompagnavano a piedi le proprie bestie, ritornando poi,
sempre a piedi, sino ad Airolo e, in treno, sino a Lavorgo, risalendo poi con il
cavallo di San Francesco a Sobrio.
Erano pochi, ricordo, coloro che potevano permettersi di ricorrere da
Bedretto ad Airolo e da Lavorgo a Sobrio all'automobile postale: quasi tutti
preferivano o dovevano risparmiare uno o due franchi, il prezzo del biglietto.
Verso
fine luglio, «a misùri», i proprietari del bestiame alpeggiato ritornavano a
Manegorio per assistere alla «misura» del latte fornito da ogni mucca: in base
ai risultati di questa operazione avveniva poi, a stagione ultimata, la
spartizione dei vari prodotti: formaggio, mascarpa e burro.
Anche questa trasferta era compiuta a piedi oppure ricorrendo a mezzi di
fortuna. Ha
ragione quindi Anita Calgari quando afferma che i nostri antenati erano grandi
camminatori. Quando
si saliva dalla Canva all'Alp Zóra, un inserviente «<tùnar») si metteva
in spalla la caldaia di rame usata per fare il formaggio e la portava sino al
corte con passo lento, ma sicuro: ricordo perfettamente l'amico Emilio Bianchi,
«tùnar» a Manegorio dal 1944 al 1946, che, forte com'era, svolgeva questo
pesante compito come se avesse sulle spalle una caldaia di cartapesta.
In quei bellici anni non si poteva andare a San Giacomo, alpe di confine;
si ebbe tuttavia in affitto, nel 1944, l'alpe di Cruina, così che, l'estensione
del pascolo essendo aumentata, vi si poté portare un maggior numero di capi
(circa 90 mucche da latte, 40 giovenche, 200 capre, altrettante pecore e 20
maiali) richiedenti l'impiego, con base a Manegorio, di ben otto addetti: il
casaro Franco Della Vecchia di Fontana, il primo pastore Gino Bianchi, l'aiuto
pastore Alfonso Bianchi, il pastore degli «stèrli» Roberto Gianini, il
sottoscritto capraio Bruno Giandeini, tutti di Sobrio, il pecoraio Antonio Butti
di Osco e i «tùnar» Emilio Bianchi di Sobrio e Livio Rosselli di Cavagnago.
Erano tempi duri per gli uomini e per le bestie, per le quali non v'erano ripari
così che esse dovevano stare all'aperto anche quando nevicava (ciò che
capitava, per due o tre giorni o magari di più, ad ogni stagione).
Si era allora costretti a sorvegliare a turno, di notte, le mandrie,
impedendo ad esse di portarsi, seguendo l'istinto, verso il fondovalle.
L'equipaggiamento dei pastori era, in simili situazioni, penosamente
insufficiente: ricordo di aver visto un capraio di Cassina Baggio camminare per
tre giorni nella neve con gli zoccoli (senza calze) perché non aveva nemmeno un
paio di scarpe.
Il raggruppamento terreni
"Uno dei mali peggiori che affliggevano da sempre l'agricoltura
ticinese era l'enorme frazionamento dei fondi coltivi. Questa situazione
è stata generata dalla tradizione romana e dal codice napoleonico,
vigente nelle terre ticinesi, per cui alla morte dei genitori i beni
vengono divisi fra gli eredi. La buona regola voleva poi che ogni erede
ricevesse un pezzo del terreno buono, un pezzo di quello meno buono, una
parte di bosco, una parte di stalla e cosi via. Questo sistema aveva
portato a suddividere all'inizio di questo secolo i 30'000 ettari di
terreno coltivo ticinese in 717'000 fondi ciò che dava 24 fondi per
ettaro di 416 mq. di superficie media. Nella Valle di Blenio, dove il
frazionamento era molto spinto, alcuni proprietari possedevano più di
200, 300 e anche 400 fondi di 100 - 200 mq. di superficie media. Questa
situazione, che impediva qualsiasi seria razionalizzazione dell'attività
agricola, indusse il governo ticinese a proporre nel 1902 una legge che
proibisse la divisione dei fondi in particelle inferiori ai 300 mq. e
dichiarava il raggruppamento terreni di pubblica utilità nelle località
dove l'eccessivo frazionamento era pregiudizievole per l'agricoltura."
(Introduzione
da "Il raggruppamento terreni in Ticino" di Martino Forrer).
Sobrio fu uno dei primi comuni in cui venne eseguito un RT, negli
anni 30 del secolo scorso.
Riportiamo alcune cartine, tracciate dal geometra
Luigi Biasca di Locarno, che dimostrano che da 12700 parcelle si
passò a 600, la superficie media per parcella aumentò da 183 a 1000 m2 e
il numero medio di parcelle per proprietario scese da 183 a 6.
Fondamentale fu anche la realizzazione delle strade di raggruppamento,
che permettevano ad ogni proprietario di raggiungere le sue parcelle con
un carro o un trattore senza calpestare l'erba degli altri. Ciò permise
di razionalizzare il lavoro e di ridurre considerevolmente discussioni e
litigi.
Altro articolo: I raggruppamenti dei terreni in montagna nel Cantone
TicinoTicino, di F. Froni
Le
vie di comunicazione
Sentieri
e strade
Il
19 novembre 1888, nello studio dell'avvocato Luigi Cattaneo di Faido, fu firmato
tra i Comuni di Cavagnago e di Anzonico un documento con cui essi si impegnavano
a costruire una strada carreggiabile da Lavorgo a Cavagnago. La strada, ultimata
nel 1894, creò tuttavia dissidi a causa dello sgombero della neve e della
relativa spesa: problema, quest'ultimo, che rese necessario un altro accordo fra
i due Comuni. Un terzo Comune era poi interessato a questa strada: Sobrio, che
esigeva il collegamento con Cavagnago, trovandosi in ormai intollerabili
condizioni di isolamento.
Per
raggiungere Giornico e Bodio non v'erano allora che due sentieri pedestri, lungo
i quali, nei secoli, erano stati trasportati a spalla viveri, merci e materiale
da costruzione. Mio padre mi raccontava, a prova delle fatiche oggi nemmeno
immaginabili di quei tempi, che Raffaele Ambrogini portava da Giornico a Sobrio,
dove aveva un'osteria, un barile di vino contenente da 50 a 60 litri: con tale
peso sulle spalle, egli percorreva 5 chilometri, superando un dislivello di
oltre 500 metri. Una donna, soprannominata «La Tarì», faceva lo stesso
tragitto, magari più volte al giorno, con un carico di un quintale di calce,
ricevendo per ogni viaggio un compenso di 2 franchi, che salivano a quattro
quando la calce doveva essere trasportata sino a «Puscètt».
Il
sentiero per Giornico partiva (e parte tuttora) da «Cà D'Andrè», passando
dalla «Capèle da Visc», «Ul
Buschètt», «Ul Badón>, «I Bagantài», «Garèsc», «Gramudél», «La
Sénde» e incontrando, davanti alla cappella di Sant'Anna e prima di arrivare
al villaggio della battaglia dei Sassi Grossi, il sentiero discendente da
Cavagnago. La chiesetta di «Gramudél»
- posta più o meno a metà strada del percorso e ora in rovina - aveva un ampio
porticato che serviva da riparo ai viandanti in caso di maltempo.
...
Il sentiero per Bodio partiva dal «Masècch da Vìli» e toccava, via via, «Sul
mét da sacch», «Parnàsch», «Frént», «Furnón>, «La Padèle».
Furono trasportate lungo questo ripido sentiero anche le campane della chiesa
parrocchiale di Sobrio, che risalgono alla prima metà del 1600 e provengono
dalla fonderia di Valduggia, nel Vercellese. Ogni campana, appesa a una robusta
pertica, venne trasportata da due uomini che marciavano davanti a da due che
seguivano; quattro altri uomini erano pronti a dare loro il cambio.
...
Quando si cominciò a parlare di una strada carrozzabile, i sentieri che univano
Sobrio al piano erano ancora nelle condizioni personalmente constatate da San
Carlo durante le sue visita del 1570 e 1581, e l'idea di un collegamento del
genere fu accolta con ben comprensibile soddisfazione. Vi sarà poi anche un
altro motivo di compiacimento: viene scelto come progettista della strada un
autentico sobriese: l'ingegner Giulio Gianini, che, avendo disegnato un
tracciato con due varianti, si trovò però subito nei guai. Una variante non
prevedeva, infatti, l'attraversamento di Ronzano, i cui abitanti reagirono con
rabbia e indignazione, sentendosi vittima di grave ingiustizia. Il discusso
tracciato passava all'altezza del «Pass Bunètt» e raggiungeva «Vili» in
località «Testamént», in cima al paese.
Per risolvere la questione si dovette
indire una votazione, in merito alla quale ci sono questi aneddoti: un abitante,
favorevole al progetto che lasciava fuori Ronzano, fu chiuso in una stalla e
liberato solo quando lo scrutinio era ormai finito; con uno stratagemma. Anche
il parroco, pure lui d'accordo con tale soluzione, non fu lasciato uscire di
chiesa per partecipare alla votazione, che diede la vittoria all'attuale
tracciato. Le vertenze non erano però ancora finite: quando la strada nel 1905
fu aperta, si cominciò a bisticciare tra Sobrio e Cavagnago per lo sgombero
della neve.
...
I sentieri, aperta la strada, persero la loro importanza, ma continuarono a
svolgere una parte specialmente utile alla pastorizia, assolvendo poi, con il
passare del tempo, un sempre più rilevante compito turistico.
I
fili a sbalzo
Come un serpente fino alla costruzione
delle strade che raggiungono ora i monti di Sobrio e all'arrivo, negli anni
Cinquanta, dei trattori, i fili a sbalzo ebbero una parte di primo piano
nell'economia del paese, in cui portavano rapidamente fieno, in particolare, e
legna. A un dato momento ne esistevano ben dieci tratti.
Il sistema di partenza, arrivo e
tensione era quello in uso in Valle Verzasca; la sola differenza era data dal
filo: da noi, invece di un solo filo di diametro consistente, si usava la
cordina, composta di tanti fili sottili, ritorti come quelli di una corda. La
cordina doveva essere messa in posa tutta intera: veniva quindi srotolata in
modo che ogni portatore potesse mettersene sulle spalle un rotolo pesante una
quarantina di chili. I portatori procedevano uno dietro l'altro, a regolare
distanza; quando uno di essi, per un motivo o l'altro, doveva fermarsi, tutti
gli altri erano costretti a interrompere la marcia e fare pure essi una sosta.
Il fieno veniva fatto scendere in mazzi tenuti insieme da una corda e attaccati
al filo con un pezzo di legno a forma di uncino («pich»). Lo spessore di
questo uncino era determinante per la buona riuscita del viaggio: se era troppo
sottile, l'attrito lo consumava sino a spezzarlo, facendo cadere il carico.
Poteva anche capitare che il «pich», consumato, si chiudesse come un morsetto,
bloccando così la discesa del carico. Per rimetterlo in moto si faceva allora
scendere un altro carico, sperando che l'urto facesse ricominciare al primo
carico il suo interrotto viaggio. Per la legna si usavano, invece, uncini di
ferro, grazie ai quali i carichi scendevano più in fretta. Se per gli adulti si
trattava di un lavoro, per i bambini era un divertimento. V'era tuttavia il
pericolo rappresentato dai carichi al momento dell'arrivo, fulmineo e violento.
Ricordo la tragica morte di Vito Berta di Anzonico e quella non meno drammatica
dei sette boscaioli fulminati il5 giugno 1933 dalla corrente elettrica a Gribbio
nel momento in cui il filo che stavano tendendo entrò, spezzandosi, in contatto
con la linea ad alta tensione che passava poco sopra. Tra i cinque feriti vi fu
Gabriele Ravelli di Sobrio, spentosi nel 1988. La rottura di un filo a sbalzo
rappresenta un pericolo gravissimo anche se non vi è di mezzo la corrente
elettrica: un giorno, rammento, pochi minuti dopo che i miei genitori avevano
finito, alla «battuta» inferiore, di fare scendere un carico di legna da
ardere da «Marùn» a Ronzano, il filo si ruppe più in alto e, riavvolgendosi
su se stesso come una molla strinse, come un guizzante serpente d'acciaio,
alcuni piccoli alberi circostanti, strappandoli in un attimo dal terreno;
nessuno, per fortuna, si trovava sul posto al momento dell'incidente e fu così
evitata una sciagura.
Prima
dell'introduzione dei fili a sbalzo erano utilizzati altri sistemi per portare
il legname a valle. In genere, i tronchi venivano fatti scivolare d'inverso
sulla neve in appositi percorsi, avvallamenti o nell'alveo dei riali. Quando si
trattava di trasportare notevoli quantità di legname, venivano approntate
delle piste artificiali costruite con tronchi, terra, pietre: le sovende
(la seguénde in dialetto di Sobrio).
Nella sezione "Varia"
segnaliamo un bel video che, fra molti altri argomenti riguardanti la Leventina,
contiene uno spezzone che ci mostra una sovenda in funzione a Ronco (minuto
9:09)
Il grande
incendio del 1759
In data 16 febbraio 1759 alle ore 23 a seguito di
una imperdonabile negligenza nel “marzorare o gramolare il lino”
(sfibrare il lino) si sviluppò un furioso incendio che distrusse ben
58 case d'abitazione e 72 stalle (Arch. Patr. Sobrio, doc. 66). In
riferimento a questo fatto la Comunità fece appello ai superstiti di
prestare maggiore attenzione nella manipolazione del fuoco all'interno
ed all’esterno delle case. “Che Dio ci difenda dal fuoco.”
Riflessione del Console Antonio d'Andrea in merito
all'incendio sopra menzionato:
(…) 1768 ad 9 8bre
" Sia conservata memorya per sempre come lano
1759 ad 16 febraro circha mezanotte fu tachato focho in una casa nella
tera de Villa onde per non essere stati in tempo osia non avendo pottuto
riparare detto focho si che attacatosi duna casa allaltra e da un techio
allaltro cosiche prima che si fase il giorno fu quasi incendiata tutta
la sudeta tera riservato otto case dalla parte di dentro qualli salvati
con laiuto (aiuto) e sochorso dalla comunitta di Cavagnago e Anzonicho e
Bodio altrimenti tuto si sarebe incendiato alii case e fabrigati quasi
tuti i mobbilli e viveri.
Onde ogni ano consideri e facia riflesione a
quel stato furono ritrovati tanta povera gente trovandosi in publica
piazza tute quelle povere famillia e senza averi e case.
Perciò stimo bene porgere memoria sopra deto
libro ciò ogni uno tenga vera cara in sua casa al focho per non incorere
in simili disgrazie e li giurati dela tera facino il suo officio
riguroso sopra questa materia e far oservare con ogni rigore li ordini
qui scriti oltre li altri qualli del focho come anche si sente da nostri
antenatti che nelli ani pasati hano corso un fato esendo brugiata anche
in quei tempi la sudeta tera di Villa possa achadere in avenire se non
meteremo sichura custodia e ciaschun capo famillia oservi loro filli
.... cha a questo esendo prevenuto la sudeta disgrazia per filli
abandonati da genitori."
Antonio d’Andrea, console.
Approfittando della pubblicazione del nuovo libro
Sobrio.
Identità, risorse e percorsi di una comunità alpina,
aggiungiamo un ulteriore testo.
Cenni storici
Sobrio è un «villaggio di terrazzo», uno dei tanti
posti in sequenza su entrambi i versanti della valle. Si potrebbe anche
definire un «villaggio sospeso», vista la morfologia del territorio che
si estende dalle balze rocciose e quasi perpendicolari affacciate sulla
sponda sinistra del fiume Ticino fino alle creste dei Cogn (2166 m) e
del Matro (2172 m). L’insediamento principale di Sobrio è storicamente
suddiviso in due terre o frazioni (Ronzano e Villa, in dialetto locale
Runzán e Vili) ed è situato su un ampio terrazzo a 1100 m di quota.
Villa e Ronzano sono attorniati da boschi e da una vasta campagna in
parte terrazzata. Sopra ai due nuclei principali troviamo quasi
esclusivamente foreste di conifere, intervallate da bei maggenghi e
prati. Nella zona inferiore, nelle balze sopra Giornico, prevalgono
invece le latifoglie con piante di rovere e selve castanili poco estese.
Come spesso accade, non vi sono certezze sulle origini
dell’insediamento, mancando indagini mirate di tipo archeologico, fatta
eccezione per i ritrovamenti fortuiti avvenuti negli anni 1935-1936 che
rimandano all’epoca romana (Giandeini 1989). V’è però da credere che,
perlomeno nell’età del ferro, il terrazzo dovesse già essere insediato (Zoller
1960, Fransioli 2002). Dobbiamo quindi procedere praticamente fino alla
prima età moderna per ottenere, dalle fonti storiche depositate negli
archivi di Sobrio, riscontri in grado di illustrarci il rapporto della
popolazione con le risorse locali e il proprio territorio. Tra le tappe
più importanti di questa comunità occorre menzionare la costituzione di
una parrocchia autonoma avvenuta nel 1611 a cui seguiranno opere di
rinnovamento e arricchimento della chiesa di San Lorenzo che ne hanno
conferito l’aspetto attuale. Tra gli eventi determinanti per
l’evoluzione del patrimonio costruito si possono invece elencare la fase
di fermento economico e demografico del XVII secolo, peraltro ben
leggibile nell’intera sostanza edilizia leventinese; il terribile
incendio del 1759 che distrusse buona parte della frazione di Villa e al
quale seguì una fase di notevole sviluppo costruttivo ricostruibile
grazie alle date incise e a frammentari riscontri documentari; e,
infine, la fase ottocentesca di rinnovamento delle costruzioni rurali
che interessò soprattutto i maggenghi, dinamica che nel periodo
1860-1890 è riscontrabile in molte regioni dell’arco alpino. A partire
almeno dal Basso Medioevo, ma probabilmente già molto prima, la
popolazione di Sobrio fu chiamata a spostarsi fuori dal proprio
territorio per completare il proprio reddito e l’approvvigionamento di
alimenti e foraggio. La secolare emigrazione stagionale dei sobriesi
verso Milano, la transumanza di lunga gittata verso l’alpe di Manegorio
in Val Bedretto (oltre 50 km) o, ancora, il possesso di alberi di
castagno sui monti dei comuni limitrofi di Pollegio e Bodio implicavano
ricorrenti e impegnative trasferte, giustificate dalla rilevanza
economica e sociale di questi flussi, ma anche dai percorsi storici
consolidatisi nel corso dei secoli. Questi percorsi e queste traiettorie
non impedirono alla comunità di Sobrio di sfiorare verso la metà
dell’Ottocento le 400 anime. Una drastica inversione di rotta avvenne
però a partire dal secondo Ottocento. In questa fase il destino di
comunità come Sobrio, rimaste al margine dello sviluppo industriale e
turistico, fu inesorabile. Nel periodo 1850-1960 le profonde
trasformazioni della società fecero di questa comunità il secondo comune
più colpito dallo spopolamento in Svizzera dopo Corippo. I cambiamenti
avvenuti nel villaggio di Sobrio nel secondo dopoguerra sono molteplici,
sia nella struttura socio-economica, sia a livello materiale. Gli
antichi gruppi corporati, per secoli basati sul requisito della
residenza e della discendenza, funzionali soprattutto alla gestione del
territorio o alla vita spirituale, hanno lasciato il posto ad
associazioni di pubblica utilità come l’AASS attiva prevalentemente in
ambito culturale e ricreativo. La cura del territorio è invece stata
assunta quasi completamente dalle poche aziende agricole, supportate da
imprese forestali attive nella regione e dalle autorità patriziali,
comunali e cantonali.